lunedì 27 luglio 2009

Disintegrato nell'Alba?


Non riesco a definire la felicità. Posso dire di stare bene l'80% del mio tempo e pensare che in passato, anche remoto, la cosa è stata sempre più o meno stabile. Ma se mi chiedessero se sono felice, non saprei rispondere. Suppongo di si. Non mi manca da vivere, anzi ne ho in sovrappiù. Se analizzo il rapporto tra vantaggi e svantaggi di quello che il caso mi ha assegnato, e di quello che sono diventato percorrendo diverse strade più o meno consapevolemente (e penso che il più delle vie si percorrano e basta, anche se ci tocca l'illusione di un qualche libero arbitrio), devo dire che il bilancio è decisamente favorevole. Mi sono comportato sempre piuttosto bene, e la vita è stata generosa con me. A volte soffro come tutti, niente di particolare. Perdere un affetto, subire il più efferato tradimento, avere qualche limitato difetto fisico, coltivare qualche rimpianto, sentire di aver sbagliato cose importanti; sono solo alcuni dei comunissimi dispiaceri che distribuiti insieme a qualche piccola gioia e soddisfazione rendono l'esistenza una linea piuttosto retta, priva di fratture o titubanze, sparata dritta sul piano del prevedibile. Dunque la felicità deve essere questa, un equilibrio di forze tra le nostre aspettative, i nostri sforzi per realizzarle e quello che il caso ci pone davanti.
In fondo non è molto diverso dal dormire. Assomiglia al sentirsi esistere, e basta. E' allora quando si prende coscienza di sé che nasce la radice non dico di sofferenza, ma di fastidio? E' dunque l'incoscienza ciò che ci rende più in sintonia con le sfere celesti(tanto per tirare in ballo quasi con spirito di celia millenni di filosofie che saltano dall'occidente pitagorico all'oriente occidentalizzato più becero), o è forse questa che ci illude di stare bene e ci convince che forse è vero, è questa la felicità? Odio gli esistenzialisti. Ci sono un miliardo di cose più concrete a cui pensare, o di cui godere. Domandarsi che cosa sia la felicità è un atto esistenzialista. Aveva ragione Erodoto nelle sue Storie facendo sostenere a Solone che nessuno dovrebbe dichiararsi felice, non dovrebbe nemmeno pensarci finché sul punto di morte non possa voltarsi indietro e vedere come in una pellicola tutta la sua vita scorrergli davanti agli occhi. Allora forse dovremmo dare ragione al carpe diem e prendere coscienza di ogni attimo che ci capita, facendo bene attenzione a catturarlo con tutti i sensi quasi per rubargli l'essenza e farlo nostro. E' un atto che ci fa sentire di esistere come individui soli e distinti più di qualunque altro. Vivo, adesso, qui, sento le mie mani, l'equilibrio elettrochimico che regola il mio organismo, ogni cellula disporsi esattamente dove deve per mandare avanti questa straordinaria macchina senza senso. Ci sono, e tra l'altro filtro ogni cosa attraverso di me. Quindi niente esiste se non percepito e rielaborato dalla mia coscienza, e non saprei dire se ciò che è all'esterno sia oggettivo. E' forse essere felici questo attimo, slegato da quello immediatamente precedente e successivo? O è prendere atto della propria cosmica solitudine, e sostanzialmente vivere di un'infelicità assoluta? Dimenticanza di sé allora, fusione con il tutto e niente, torniamo ai buddisti del cazzo. Per un sacco di tempo, e certe volte ancora, avrei voluto cristallizarmi come un sasso e semplicemente esistere, immobile, quasi fino a sfiorare la disintegrazione nel Nulla-Tutto. Ho tentato anche di sperimentarlo, "annientandomi" di sonno. Lo racconto in maniera abbastanza ermetica in Alogos. In sostanza, non ci si capisce una mazza, ma il significato è questo.
D'altronde le parole non bastano per esprimere una cosa del genere, sono astrazioni comunque limitate. Al di là di tutto, ho impresso alcuni momenti in cui la mia singolarità distinta era percepita come felecità assoluta. Il loro ricordo è quanto di più vicino all'idea di felicità io abbia in realtà, anche se non posso riconoscerla tale per le mille contraddizioni che potrei elencare anche solo andando a rileggere quello che fin qui è stato scritto. Ero assolutamente felice nel miracolo di quell'alba verde e della nostra veglia? Eternizzai quel momento d'adolescente descrivendolo come in una specie di immagine-racconto in tre tempi distinti: cioé, lo scrissi una prima volta al passato, poi ricominciai da capo cambiando i tempi al presente, e di nuovo ancora al futuro. Era il mio tentativo di sviluppare una tecnica per sperimentare la felicità assoluta, che non può essere tale se non è eterna. Ed eccola qua, l'impressione quasi fotografica: io ero là, sono ancora là e sarò là con lei, o siamo Uno in due, non lo so, disintegrati nell'alba, pura luce. Eppure quest'impressione mi dà anche la percezione ben distinta della mia individualità, e solitudine totale. Come dire, che la felicità assoluta non può esistere se nell'altro lato della sua medaglia non vi è l'infelicità pura. Due contrasti ossimorici per due opposti che coincidono, come sempre. Quindi forse la linea retta, ed il piano prevedibile, e la vita automatica, è ciò che più in realtà si avvicina alla dimenticanza. Quando arriverai alla fine, potrai forse persino evitare la domanda se tu sia stato davvero felice. E te ne sparirari nella terra come un sasso disintegrato in sabbia dal vento del deserto.
Ma che cazzo ne so, so solo che ho fatto quel ritratto di me a quarant'anni sulla lista della spesa di qualche giorno fa. Maledetti tentativi di fissare gli attimi.

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