mercoledì 29 luglio 2009

Throw down your umbilical noose so I can climb right back

Si dice che l'uomo sia l'unico animale consapevole della propria inevitabile fine. Presupposto che non esprimerei nulla di sicuro su quello che può percepire non solo un animale, ma in genere un altro essere, perché qualsiasi cosa possa io affermare dipenderebbe sempre dal mio punto di vista e da assunti miei propri (in pratica, bisognerebbe per assurdo essere proprio QUELL' animale per capire qual è il suo modo di occupare un posto nell'esistenza), la certezza della fine coinvolge qualsiasi cosa abbiamo l'illusione di possedere. Un lutto amoroso per esempio, è pur sempre un lutto.
Perché poi siamo così recalcitranti ad accettare la sparizione delle nostre certezze, la separazione da quello che eravamo, la perdita e l'abbandono io non saprei dire con esattezza, visto che sono possibilità che mettiamo in conto fin da subito.
Forse si rinnova il dolore primigenio di venire al mondo e di sentirci improvvisamente e violentemente separati.
"Throw down your umbilical noose so I can climb right back" (Heart Shaped Box, Kurt Cobain): è la ricongiunzione con l'unità che abbiamo perso e che continuiamo a perdere continuamente nell'illusione di costruire. Un nodo scorsoio alla gola. Aborriamo il divenire e la consapevolezza di essere fondamentalmente soli. È questa nostra solitudine che in realtà innalziamo mattoncino dopo mattoncino? La depositiamo nella nostra memoria emozionale, nell'amigdala, trascinandoci dietro come un archivio di tutte le combinazioni elettro-chimiche che il nostro calcolatore organico ha incontrato nella sua parabola. Ogni fine è quindi memoria riproposta della fine della primitiva unità? Avremmo allora un dolore di default installato nell'anima, metro e fonte da cui attingere per riconoscere ogni altra esperienza a venire. Ma così facendo la morte lascia pur sempre una sua impressione nella nostra macchina da presa: siamo noi che vogliamo/dobbiamo tentare di eternizzare gli attimi in questo modo, piuttosto che lasciarli indietro definitivamente? E per quale motivo? Quale perverso meccanismo evolutivo ci ha dotato della capacità di ricordare, e per quale fine?
Se non siamo altro che macchine raffinatissime comandate da software genetico, il cui unico compito è la riproduzione (e tutto dovrebbe essere cominciato in quella brodaglia primordiale per una combinazione casuale di azoto, carbonio, idrogeno ed ossigeno, una possibilità su un numero che tende all'infinito), questa caratteristica una funzione di vantaggio per replicare l'esistenza non dico della specie, ma proprio degli individi, deve averla.
Tra le tante morti che si possono incontrare comunque, quella che origina dal tradimento è tra le peggiori. Il tradimento è un altro tipo di fine che si mette in conto quando costruiamo all'interno dei rapporti umani, inutile dire soprattutto quando si ama.
Non si ama davvero senza concepire la possibilità del tradimento, anche solo perché sarebbe assurdo sentirsi traditi da chi o tradire chi ci è indifferente.
Possiamo addirittura vedere il tradimento in un'ottica positiva, per varie ragioni: ma sempre respingendo da noi l'idea della fine, sempre nell'ottica di trasformarlo in qualcosa che renda le fondamenta più salde. Ma la morte per tradimento lascia scorie pesanti da gestire, proprio quando l'unica cosa che vorresti è cancellare ("The eternal sunshine of the spotless mind"), se il dolore sovrasta perfino i ricordi positivi da cui non riesci, non puoi separarti. Tale morte inquina l'amigdala con un dolore talmente intenso da accendere il meccanismo del rancore e dell'odio. E tu vorresti solo il nulla. L'odio è qualcosa di molto simile all'amore. In qualche modo tutti e due sono sentimenti che ci legano a qualcuno o qualcosa in un rapporto di esclusività.
Ma l'odio forse è un meccansimo di difesa contro ciò che si oppone alla nostra felicità, specie se tale opposizione ci appare brutalmente cinica e volontaria. Se identifichiamo ciò che abbiamo amato come la possibilità concreta della felicità (ancora quel tentativo di risalire il cordone ombelicale?), non possiamo che odiare questo oggetto quando del tutto inaspettatamente e senza altre ragioni che ci paiano comprensibili non solo ci si nega, ci abbandona e ci rifiuta, ma ci calpesta. L'essenza del tradimento non è nella fine, che temiamo ed aspettiamo (potremmo anche morire noi, non necessariamente l'altro) ed è più facile da sopportare, ma nella malvagità ingiustificata. Abbiamo permesso all'amore di avvicinarsi a noi così tanto, oltre le difese, solo perché potesse colpirci nel massimo della profondità.
Se niente è eterno, ogni amore finisce. Quindi sappiamo che uccideremo o saremo uccisi, o tutti e due, fin da principio. Ma ci restano numerose speranze di salvezza e di sopravvivenza che rendono il distacco, più o meno facilmente, simile alla quiete e alla dimenticanza. La morte per tradimento inficia queste speranze e ci inquina in profondità, perpetuando il legame di esclusività. Quanto tempo occorrerà per smaltire l'inquinamento, ed accettare davvero la morte e la solitudine?

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