domenica 26 luglio 2009

E' una sorta di neoumanesimo ciò che voglio?

Suonare musica "pop", in senso molto lato: tra le molteplici attività possibili, per un giovane medio dell'occidente opulento, una di quelle che più coltiva la propria vanità. Non da meno è tenere un blog, un diario pubblico. Ci vuole una dose di narcisismo non trascurabile per farlo con un certo rigore ed una discreta regolarità. Sono atti che richiedono il plauso di un pubblico per sussistere. Da lì traiamo la nostra gratificazione, la nostra gioia, il nutrimento per alimentare il nostro ego. Ricercare la bellezza in questo bisogno di essere stimati richiede molto coraggio in più: la fatica della ricerca, la difficoltà ad accettare il compromesso ed allo stesso tempo sempre la necessità di non chiudersi nella propria nicchia, di arrivare a più gente possibile. Inutile dire che nel nostro sistema tutto questo non è mai potuto sfuggire alle logiche di un mercato, di una domanda e di un'offerta. Come cerchiamo il plauso, abbiamo bisogno di applaudire, qualunque sia il nostro livello di consapevolezza e profondità nell'agnizione della bellezza. Ognuno riconosca secondo la propria "etica" le gradazioni diverse di "giusto" e "sbagliato" in fatto di cultura (o di "bello" e "brutto", secondo la propria coscienza estetica, e ammesso che non vogliamo escludere o meno un certo assolutismo o relativismo in questi campi), tra ciò che è "mainstream" e ciò che è "indipendente" (altri concetti piuttosto vaghi su cui si potrebbe scrivere molto). Riflettiamo abbastanza però sul perché di quello che stiamo facendo?
Un atto molto coraggioso, ed allo stesso tempo sofferente e liberatorio, è stato quello di rendermi conto molto presto che avrei dovuto rinunciare fin da principio a tutto il bagaglio di sogni adolescenziali e lustrini indie rock che a livello più o meno inconscio mi animavano. Azzerare le aspettative, smettere di pensare il proprio presente in funzione di chissà quale futuro. Non che ciò non sia un obiettivo allettante, desiderabile e gratificante da raggiungere; sarei un'ipocrita a sostenerlo: nessuno si espone per rimanere nell'anonimato, per quanto fedele ad una propria etica culturale. E' un controsenso (che poi le possibilità di vivere di "arte", benché dotati di buon talento, siano praticamente zero è un altro discorso).
Ma prendere coscienza dei miei più profondi bisogni di creatura umana ha portato a stravolgere in parte la concezione di ciò che produco, di ciò che offro e di come lo offro. E' il bisogno di umanità, di rapporti umani profondi, di una propria compagnia e nicchia di resistenza culturale ed esistenziale, della conoscenza critica di sé e degli altri, della costruzione di un'etica sui pilastri dei propri assoluti, che mi appartenga davvero il più possibile, proprio quando si sa che è solo vuoto e buio quello che ci circonda. E' il bisogno di respirare, di camminare con le proprie gambe a testa alta per quanto possibile. E' il bisogno così intimo di amare e di essere amati. Amore, quest'entità ontologicamente inconsistente, se non creata ad hoc come irraggiungibile ideale da cui dipendere per alimentare il cieco ciclo dello spreco pianificato. Ma al di là di ogni sovrastruttura, come si fa a non vedere dietro questo concetto "una misteriosa corrispondenza con non si sa qual bisogno costitutivo della natura umana"?
"Comunque sia l'amore esiste, in quanto se ne possono osservare gli effetti" (Houellebecq, in "Estensione del dominio della lotta"). Ma ci guarderemo bene dal formulare anche la più sobria delle ipotesi sulla natura di suddetto bisogno.
Comunque sia, è un completo suicidio dal punto di vista del mercato, e non parlo tanto di musica o di qualsiasi altra pretenziosa attività "artistica", parlo proprio del valore umano tarato secondo il metro dell'attuale Paradigma. Si rischia in pratica di non esistere, o di essere condannati ad una solitudine dolorosa. Solo chi ricerca il Bello mettendo così profondamente in gioco se stesso sa quanta sofferenza in più deve sopportare per raccogliere granelli di vera gioia. Questo anche perché oltre la creazione del proprio nucleo, del proprio nido di resistenza umana alla volgarità massimalista del mercato, c'è sempre la necessità di raggiungere più individui possibili del consorzio umano, ma stavolta per scambiare anche solo un briciolo di profondità in più oltre al solito rapporto star/fan. Qualcosa insomma che assomigli molto di più ad un rapporto di scambio orizzontale, più umano, non imposto dall'alto, non da sopra un palco, ma dallo stesso livello di creature senzienti. Questo non esclude il mercato, d'accordo. Ma forse vorrebbe almeno crearne un altro, più Giusto ed Utile, che parta dal basso, dal raggio corto. E' un atto d'utopia, è un atto che richiede una grande stima di sé per meritarla dagli altri ed un grande sforzo di consocenza del sé, che è pronto alla dialettica, che proviene da una creatura che sa di essere destinata probabilmente a perdere, se non altro per estinzione in un milieu che richiede tutt'altro per la lotta alla sopravvivenza; una creatura che pur adattandosi non può esistere altrimenti per affermarsi, consapevole della sofferenza che richiede la ricerca di una felicità dalle radici più salde. Una contraddizione esistenziale sembrerebbe, perché pure se non si vede che buio e vuoto, si vive nel bisogno di esprimersi, di comunicare, di costruire, di amare e di essere amati.

1 commento:

black sun ha detto...

Essere amati da chi non può amare, da un pubblico indifferenziato, che di riverbero in riverbero, di copia in copia viene sfiorato dal frutto schematizzato della tua distillazione. L'epoca risolve bene il problema, dissolvendo l'unicità del prodotto nella sua reperibile, deperibile maniera. Il problema sta alla fonte come alla foce.
Dalle altezze si spia la foce: e la musica è già musica della foce.
Un eccesso di spettatori nuoce, come la sua assenza.
La presenza del pubblico è perniciosa già a partire dal concepimento di un'opera. I fantasmi perdono la grana, la solitudine è una generica comunicazione a finta distanza.
Nondimeno, non possiamo disperare.
Tocca sopravvivere. Se proprio non possiamo morirne.