Ho finito di leggere e tradurre il Brutus di Cicerone, nell'edizione commentata uscita poco tempo fa per Carocci. C'è qualcosa che mi colpisce profondamente in questo dialogo, qualcosa in cui riesco a leggere la mia esperienza, o meglio la nostra esperienza come generazione nel mondo contemporaneo. Il commento di Rosa Rita Marchese sottolinea particolarmente il sentimento di desolazione dell'oratore, escluso da ogni gioco politico e costretto al silenzio dalla schiacciante vittoria di Cesare, e mette in luce la sua consapevolezza del tramonto di un'epoca, quella della Repubblica, fondata sull'arte oratoria (l'arte di parlare in pubblico, la più difficile e nobile tra tutte). La morte della Repubblica significò anche la morte del foro e Cicerone, orbato sia dalla perdita dello Stato, sia dalla possibilità di confronto pubblico con gli intellettuali della sua generazione, ripercorre tutta la storia dell'oratoria come in una sorta di laudatio funebre, il cui scopo è mantenere viva la memoria dei meccanismi che avevano fatto grande lo Stato. L'angoscia per le tenebre del futuro è fortissima: non solo per le vicende individuali, che lo costringono ad un isolamento e a un'inoperosità che gli fanno ritenere più desiderabile la morte (come quella recente e quasi provvidenziale del suo amico e collega Ortensio, paradossalmente più fortunato nell'essere scomparso in tempo per evitare la vista di tanto sfacelo), ma soprattutto per il destino delle generazioni future, di cui Bruto è rappresentante nel dialogo e le cui brillanti capacità resteranno prive di uno Stato in cui operare, e lo Stato resterà privo di esse. È per questo che, dopo la rassegna dei personaggi che hanno fatto la storia dell'oratoria e la disamina tecnica degli stili di quest'arte (la cui somiglianza a molte categorie contemporanee d'ermeneutica culturale è di per sé entusiasmante), Cicerone affida a Bruto il compito di mantenere vivo il ricordo dell'antica e pubblica reciprocità intellettuale - fondamento di una societas davvero virtuosa - e di trasferirla in una dimensione privata, in un librorum municipium (dalla forma orale a quella scritta), come una sorta di resistenza al buio che si prospetta. Come non riconoscere noi stessi in Bruto - preparati alla guida di un mondo che ci è stato sottratto, ormai brutalizzato e asservito agli interessi economici - , soli, impoveriti ed emarginati, nel tentativo di condurre una resistenza sotterranea, di alimentare uno scambio intellettuale reale al di fuori delle abbacinanti e corruttrici luci dei riflettori, intenti a costruire il nostro municipium privato nel tentativo di non far perire i valori di humanitas. Qualsiasi atto creativo dovrebbe riconoscersi in Bruto. E tanto più desolante è invece riconoscere nel blaterio imperante il trionfo della tecnocrazia capitalista, creatrice di quel villaggio globale abitato da sterili monadi non comunicanti. Il paragone è sicuramente azzardato e le analogie arbitrarie, ma leggendo il Brutus non posso non eleggerlo come rappresentante di diritto della mitologia delle Formiche.