Mi capita dunque di pensare alla mia annosa lentezza, cioè a quel grumo che mi abita e impastoia ogni fibra del mio essere. Non conto più il tempo che ho sprecato, smarrito in uno stato catatonico, stravolto dalle passioni o semplicemente perso nel tentativo di analizzare la viscosità di ciò che mi opprime. Nell'incertezza, perenne stato d'infanzia alla ricerca di rassicuranti figure genitoriali o fratelli maggiori protettivi, ho vagato triturandomi in frammenti, polverizzati e dati in balsamo a molti in cambio di un gesto, una parola, un riconoscimento. Ho vissuto in un'immagine di specchi infranti, plurale, dissolvendo la mia unità in un coro di visioni parziali ed aliene. Ho abdicato a me stesso per cercare di essere me. E' stata ed è ancora questa la causa della mia fatica e della mia lentezza. Solo restringere il cerchio potrebbe significare ritrovare finalmente il fuoco contro l'abbandono alle blande onde di un mediocre oblio. Forse tutti noi non cerchiamo altro che una sorte di ricomposizione con quello che veramente siamo, dal momento in cui andiamo in pezzi. L'esistenza scorre tra quel momento e la tensione continua (di fatto, irraggiungibile se non per approssimazione), ma il più delle volte manca un progetto, o peggio, manca del tutto la consapevolezza di essere unus. E' dunque dal conflitto che ingaggiamo contro noi stessi che nasce la disarmonia con l'esterno. Ritrovare il vero volto del proprio ritratto non è una questione di sforzo o di guerra, quanto di pace e riconciliazione.