"Scende/sfuma in strisce di nuvole/sui campi sugli orti più flebile/ogni rancore rincorre/lo scemare del sole"
ero più piccolo, ma non cambia
giovedì 30 luglio 2009
mercoledì 29 luglio 2009
Throw down your umbilical noose so I can climb right back
Si dice che l'uomo sia l'unico animale consapevole della propria inevitabile fine. Presupposto che non esprimerei nulla di sicuro su quello che può percepire non solo un animale, ma in genere un altro essere, perché qualsiasi cosa possa io affermare dipenderebbe sempre dal mio punto di vista e da assunti miei propri (in pratica, bisognerebbe per assurdo essere proprio QUELL' animale per capire qual è il suo modo di occupare un posto nell'esistenza), la certezza della fine coinvolge qualsiasi cosa abbiamo l'illusione di possedere. Un lutto amoroso per esempio, è pur sempre un lutto.
Perché poi siamo così recalcitranti ad accettare la sparizione delle nostre certezze, la separazione da quello che eravamo, la perdita e l'abbandono io non saprei dire con esattezza, visto che sono possibilità che mettiamo in conto fin da subito.
Forse si rinnova il dolore primigenio di venire al mondo e di sentirci improvvisamente e violentemente separati.
"Throw down your umbilical noose so I can climb right back" (Heart Shaped Box, Kurt Cobain): è la ricongiunzione con l'unità che abbiamo perso e che continuiamo a perdere continuamente nell'illusione di costruire. Un nodo scorsoio alla gola. Aborriamo il divenire e la consapevolezza di essere fondamentalmente soli. È questa nostra solitudine che in realtà innalziamo mattoncino dopo mattoncino? La depositiamo nella nostra memoria emozionale, nell'amigdala, trascinandoci dietro come un archivio di tutte le combinazioni elettro-chimiche che il nostro calcolatore organico ha incontrato nella sua parabola. Ogni fine è quindi memoria riproposta della fine della primitiva unità? Avremmo allora un dolore di default installato nell'anima, metro e fonte da cui attingere per riconoscere ogni altra esperienza a venire. Ma così facendo la morte lascia pur sempre una sua impressione nella nostra macchina da presa: siamo noi che vogliamo/dobbiamo tentare di eternizzare gli attimi in questo modo, piuttosto che lasciarli indietro definitivamente? E per quale motivo? Quale perverso meccanismo evolutivo ci ha dotato della capacità di ricordare, e per quale fine?
Se non siamo altro che macchine raffinatissime comandate da software genetico, il cui unico compito è la riproduzione (e tutto dovrebbe essere cominciato in quella brodaglia primordiale per una combinazione casuale di azoto, carbonio, idrogeno ed ossigeno, una possibilità su un numero che tende all'infinito), questa caratteristica una funzione di vantaggio per replicare l'esistenza non dico della specie, ma proprio degli individi, deve averla.
Tra le tante morti che si possono incontrare comunque, quella che origina dal tradimento è tra le peggiori. Il tradimento è un altro tipo di fine che si mette in conto quando costruiamo all'interno dei rapporti umani, inutile dire soprattutto quando si ama.
Non si ama davvero senza concepire la possibilità del tradimento, anche solo perché sarebbe assurdo sentirsi traditi da chi o tradire chi ci è indifferente.
Possiamo addirittura vedere il tradimento in un'ottica positiva, per varie ragioni: ma sempre respingendo da noi l'idea della fine, sempre nell'ottica di trasformarlo in qualcosa che renda le fondamenta più salde. Ma la morte per tradimento lascia scorie pesanti da gestire, proprio quando l'unica cosa che vorresti è cancellare ("The eternal sunshine of the spotless mind"), se il dolore sovrasta perfino i ricordi positivi da cui non riesci, non puoi separarti. Tale morte inquina l'amigdala con un dolore talmente intenso da accendere il meccanismo del rancore e dell'odio. E tu vorresti solo il nulla. L'odio è qualcosa di molto simile all'amore. In qualche modo tutti e due sono sentimenti che ci legano a qualcuno o qualcosa in un rapporto di esclusività.
Ma l'odio forse è un meccansimo di difesa contro ciò che si oppone alla nostra felicità, specie se tale opposizione ci appare brutalmente cinica e volontaria. Se identifichiamo ciò che abbiamo amato come la possibilità concreta della felicità (ancora quel tentativo di risalire il cordone ombelicale?), non possiamo che odiare questo oggetto quando del tutto inaspettatamente e senza altre ragioni che ci paiano comprensibili non solo ci si nega, ci abbandona e ci rifiuta, ma ci calpesta. L'essenza del tradimento non è nella fine, che temiamo ed aspettiamo (potremmo anche morire noi, non necessariamente l'altro) ed è più facile da sopportare, ma nella malvagità ingiustificata. Abbiamo permesso all'amore di avvicinarsi a noi così tanto, oltre le difese, solo perché potesse colpirci nel massimo della profondità.
Se niente è eterno, ogni amore finisce. Quindi sappiamo che uccideremo o saremo uccisi, o tutti e due, fin da principio. Ma ci restano numerose speranze di salvezza e di sopravvivenza che rendono il distacco, più o meno facilmente, simile alla quiete e alla dimenticanza. La morte per tradimento inficia queste speranze e ci inquina in profondità, perpetuando il legame di esclusività. Quanto tempo occorrerà per smaltire l'inquinamento, ed accettare davvero la morte e la solitudine?
Perché poi siamo così recalcitranti ad accettare la sparizione delle nostre certezze, la separazione da quello che eravamo, la perdita e l'abbandono io non saprei dire con esattezza, visto che sono possibilità che mettiamo in conto fin da subito.
Forse si rinnova il dolore primigenio di venire al mondo e di sentirci improvvisamente e violentemente separati.
"Throw down your umbilical noose so I can climb right back" (Heart Shaped Box, Kurt Cobain): è la ricongiunzione con l'unità che abbiamo perso e che continuiamo a perdere continuamente nell'illusione di costruire. Un nodo scorsoio alla gola. Aborriamo il divenire e la consapevolezza di essere fondamentalmente soli. È questa nostra solitudine che in realtà innalziamo mattoncino dopo mattoncino? La depositiamo nella nostra memoria emozionale, nell'amigdala, trascinandoci dietro come un archivio di tutte le combinazioni elettro-chimiche che il nostro calcolatore organico ha incontrato nella sua parabola. Ogni fine è quindi memoria riproposta della fine della primitiva unità? Avremmo allora un dolore di default installato nell'anima, metro e fonte da cui attingere per riconoscere ogni altra esperienza a venire. Ma così facendo la morte lascia pur sempre una sua impressione nella nostra macchina da presa: siamo noi che vogliamo/dobbiamo tentare di eternizzare gli attimi in questo modo, piuttosto che lasciarli indietro definitivamente? E per quale motivo? Quale perverso meccanismo evolutivo ci ha dotato della capacità di ricordare, e per quale fine?
Se non siamo altro che macchine raffinatissime comandate da software genetico, il cui unico compito è la riproduzione (e tutto dovrebbe essere cominciato in quella brodaglia primordiale per una combinazione casuale di azoto, carbonio, idrogeno ed ossigeno, una possibilità su un numero che tende all'infinito), questa caratteristica una funzione di vantaggio per replicare l'esistenza non dico della specie, ma proprio degli individi, deve averla.
Tra le tante morti che si possono incontrare comunque, quella che origina dal tradimento è tra le peggiori. Il tradimento è un altro tipo di fine che si mette in conto quando costruiamo all'interno dei rapporti umani, inutile dire soprattutto quando si ama.
Non si ama davvero senza concepire la possibilità del tradimento, anche solo perché sarebbe assurdo sentirsi traditi da chi o tradire chi ci è indifferente.
Possiamo addirittura vedere il tradimento in un'ottica positiva, per varie ragioni: ma sempre respingendo da noi l'idea della fine, sempre nell'ottica di trasformarlo in qualcosa che renda le fondamenta più salde. Ma la morte per tradimento lascia scorie pesanti da gestire, proprio quando l'unica cosa che vorresti è cancellare ("The eternal sunshine of the spotless mind"), se il dolore sovrasta perfino i ricordi positivi da cui non riesci, non puoi separarti. Tale morte inquina l'amigdala con un dolore talmente intenso da accendere il meccanismo del rancore e dell'odio. E tu vorresti solo il nulla. L'odio è qualcosa di molto simile all'amore. In qualche modo tutti e due sono sentimenti che ci legano a qualcuno o qualcosa in un rapporto di esclusività.
Ma l'odio forse è un meccansimo di difesa contro ciò che si oppone alla nostra felicità, specie se tale opposizione ci appare brutalmente cinica e volontaria. Se identifichiamo ciò che abbiamo amato come la possibilità concreta della felicità (ancora quel tentativo di risalire il cordone ombelicale?), non possiamo che odiare questo oggetto quando del tutto inaspettatamente e senza altre ragioni che ci paiano comprensibili non solo ci si nega, ci abbandona e ci rifiuta, ma ci calpesta. L'essenza del tradimento non è nella fine, che temiamo ed aspettiamo (potremmo anche morire noi, non necessariamente l'altro) ed è più facile da sopportare, ma nella malvagità ingiustificata. Abbiamo permesso all'amore di avvicinarsi a noi così tanto, oltre le difese, solo perché potesse colpirci nel massimo della profondità.
Se niente è eterno, ogni amore finisce. Quindi sappiamo che uccideremo o saremo uccisi, o tutti e due, fin da principio. Ma ci restano numerose speranze di salvezza e di sopravvivenza che rendono il distacco, più o meno facilmente, simile alla quiete e alla dimenticanza. La morte per tradimento inficia queste speranze e ci inquina in profondità, perpetuando il legame di esclusività. Quanto tempo occorrerà per smaltire l'inquinamento, ed accettare davvero la morte e la solitudine?
lunedì 27 luglio 2009
Disintegrato nell'Alba?
Non riesco a definire la felicità. Posso dire di stare bene l'80% del mio tempo e pensare che in passato, anche remoto, la cosa è stata sempre più o meno stabile. Ma se mi chiedessero se sono felice, non saprei rispondere. Suppongo di si. Non mi manca da vivere, anzi ne ho in sovrappiù. Se analizzo il rapporto tra vantaggi e svantaggi di quello che il caso mi ha assegnato, e di quello che sono diventato percorrendo diverse strade più o meno consapevolemente (e penso che il più delle vie si percorrano e basta, anche se ci tocca l'illusione di un qualche libero arbitrio), devo dire che il bilancio è decisamente favorevole. Mi sono comportato sempre piuttosto bene, e la vita è stata generosa con me. A volte soffro come tutti, niente di particolare. Perdere un affetto, subire il più efferato tradimento, avere qualche limitato difetto fisico, coltivare qualche rimpianto, sentire di aver sbagliato cose importanti; sono solo alcuni dei comunissimi dispiaceri che distribuiti insieme a qualche piccola gioia e soddisfazione rendono l'esistenza una linea piuttosto retta, priva di fratture o titubanze, sparata dritta sul piano del prevedibile. Dunque la felicità deve essere questa, un equilibrio di forze tra le nostre aspettative, i nostri sforzi per realizzarle e quello che il caso ci pone davanti.
In fondo non è molto diverso dal dormire. Assomiglia al sentirsi esistere, e basta. E' allora quando si prende coscienza di sé che nasce la radice non dico di sofferenza, ma di fastidio? E' dunque l'incoscienza ciò che ci rende più in sintonia con le sfere celesti(tanto per tirare in ballo quasi con spirito di celia millenni di filosofie che saltano dall'occidente pitagorico all'oriente occidentalizzato più becero), o è forse questa che ci illude di stare bene e ci convince che forse è vero, è questa la felicità? Odio gli esistenzialisti. Ci sono un miliardo di cose più concrete a cui pensare, o di cui godere. Domandarsi che cosa sia la felicità è un atto esistenzialista. Aveva ragione Erodoto nelle sue Storie facendo sostenere a Solone che nessuno dovrebbe dichiararsi felice, non dovrebbe nemmeno pensarci finché sul punto di morte non possa voltarsi indietro e vedere come in una pellicola tutta la sua vita scorrergli davanti agli occhi. Allora forse dovremmo dare ragione al carpe diem e prendere coscienza di ogni attimo che ci capita, facendo bene attenzione a catturarlo con tutti i sensi quasi per rubargli l'essenza e farlo nostro. E' un atto che ci fa sentire di esistere come individui soli e distinti più di qualunque altro. Vivo, adesso, qui, sento le mie mani, l'equilibrio elettrochimico che regola il mio organismo, ogni cellula disporsi esattamente dove deve per mandare avanti questa straordinaria macchina senza senso. Ci sono, e tra l'altro filtro ogni cosa attraverso di me. Quindi niente esiste se non percepito e rielaborato dalla mia coscienza, e non saprei dire se ciò che è all'esterno sia oggettivo. E' forse essere felici questo attimo, slegato da quello immediatamente precedente e successivo? O è prendere atto della propria cosmica solitudine, e sostanzialmente vivere di un'infelicità assoluta? Dimenticanza di sé allora, fusione con il tutto e niente, torniamo ai buddisti del cazzo. Per un sacco di tempo, e certe volte ancora, avrei voluto cristallizarmi come un sasso e semplicemente esistere, immobile, quasi fino a sfiorare la disintegrazione nel Nulla-Tutto. Ho tentato anche di sperimentarlo, "annientandomi" di sonno. Lo racconto in maniera abbastanza ermetica in Alogos. In sostanza, non ci si capisce una mazza, ma il significato è questo.
D'altronde le parole non bastano per esprimere una cosa del genere, sono astrazioni comunque limitate. Al di là di tutto, ho impresso alcuni momenti in cui la mia singolarità distinta era percepita come felecità assoluta. Il loro ricordo è quanto di più vicino all'idea di felicità io abbia in realtà, anche se non posso riconoscerla tale per le mille contraddizioni che potrei elencare anche solo andando a rileggere quello che fin qui è stato scritto. Ero assolutamente felice nel miracolo di quell'alba verde e della nostra veglia? Eternizzai quel momento d'adolescente descrivendolo come in una specie di immagine-racconto in tre tempi distinti: cioé, lo scrissi una prima volta al passato, poi ricominciai da capo cambiando i tempi al presente, e di nuovo ancora al futuro. Era il mio tentativo di sviluppare una tecnica per sperimentare la felicità assoluta, che non può essere tale se non è eterna. Ed eccola qua, l'impressione quasi fotografica: io ero là, sono ancora là e sarò là con lei, o siamo Uno in due, non lo so, disintegrati nell'alba, pura luce. Eppure quest'impressione mi dà anche la percezione ben distinta della mia individualità, e solitudine totale. Come dire, che la felicità assoluta non può esistere se nell'altro lato della sua medaglia non vi è l'infelicità pura. Due contrasti ossimorici per due opposti che coincidono, come sempre. Quindi forse la linea retta, ed il piano prevedibile, e la vita automatica, è ciò che più in realtà si avvicina alla dimenticanza. Quando arriverai alla fine, potrai forse persino evitare la domanda se tu sia stato davvero felice. E te ne sparirari nella terra come un sasso disintegrato in sabbia dal vento del deserto.
Ma che cazzo ne so, so solo che ho fatto quel ritratto di me a quarant'anni sulla lista della spesa di qualche giorno fa. Maledetti tentativi di fissare gli attimi.
In fondo non è molto diverso dal dormire. Assomiglia al sentirsi esistere, e basta. E' allora quando si prende coscienza di sé che nasce la radice non dico di sofferenza, ma di fastidio? E' dunque l'incoscienza ciò che ci rende più in sintonia con le sfere celesti(tanto per tirare in ballo quasi con spirito di celia millenni di filosofie che saltano dall'occidente pitagorico all'oriente occidentalizzato più becero), o è forse questa che ci illude di stare bene e ci convince che forse è vero, è questa la felicità? Odio gli esistenzialisti. Ci sono un miliardo di cose più concrete a cui pensare, o di cui godere. Domandarsi che cosa sia la felicità è un atto esistenzialista. Aveva ragione Erodoto nelle sue Storie facendo sostenere a Solone che nessuno dovrebbe dichiararsi felice, non dovrebbe nemmeno pensarci finché sul punto di morte non possa voltarsi indietro e vedere come in una pellicola tutta la sua vita scorrergli davanti agli occhi. Allora forse dovremmo dare ragione al carpe diem e prendere coscienza di ogni attimo che ci capita, facendo bene attenzione a catturarlo con tutti i sensi quasi per rubargli l'essenza e farlo nostro. E' un atto che ci fa sentire di esistere come individui soli e distinti più di qualunque altro. Vivo, adesso, qui, sento le mie mani, l'equilibrio elettrochimico che regola il mio organismo, ogni cellula disporsi esattamente dove deve per mandare avanti questa straordinaria macchina senza senso. Ci sono, e tra l'altro filtro ogni cosa attraverso di me. Quindi niente esiste se non percepito e rielaborato dalla mia coscienza, e non saprei dire se ciò che è all'esterno sia oggettivo. E' forse essere felici questo attimo, slegato da quello immediatamente precedente e successivo? O è prendere atto della propria cosmica solitudine, e sostanzialmente vivere di un'infelicità assoluta? Dimenticanza di sé allora, fusione con il tutto e niente, torniamo ai buddisti del cazzo. Per un sacco di tempo, e certe volte ancora, avrei voluto cristallizarmi come un sasso e semplicemente esistere, immobile, quasi fino a sfiorare la disintegrazione nel Nulla-Tutto. Ho tentato anche di sperimentarlo, "annientandomi" di sonno. Lo racconto in maniera abbastanza ermetica in Alogos. In sostanza, non ci si capisce una mazza, ma il significato è questo.
D'altronde le parole non bastano per esprimere una cosa del genere, sono astrazioni comunque limitate. Al di là di tutto, ho impresso alcuni momenti in cui la mia singolarità distinta era percepita come felecità assoluta. Il loro ricordo è quanto di più vicino all'idea di felicità io abbia in realtà, anche se non posso riconoscerla tale per le mille contraddizioni che potrei elencare anche solo andando a rileggere quello che fin qui è stato scritto. Ero assolutamente felice nel miracolo di quell'alba verde e della nostra veglia? Eternizzai quel momento d'adolescente descrivendolo come in una specie di immagine-racconto in tre tempi distinti: cioé, lo scrissi una prima volta al passato, poi ricominciai da capo cambiando i tempi al presente, e di nuovo ancora al futuro. Era il mio tentativo di sviluppare una tecnica per sperimentare la felicità assoluta, che non può essere tale se non è eterna. Ed eccola qua, l'impressione quasi fotografica: io ero là, sono ancora là e sarò là con lei, o siamo Uno in due, non lo so, disintegrati nell'alba, pura luce. Eppure quest'impressione mi dà anche la percezione ben distinta della mia individualità, e solitudine totale. Come dire, che la felicità assoluta non può esistere se nell'altro lato della sua medaglia non vi è l'infelicità pura. Due contrasti ossimorici per due opposti che coincidono, come sempre. Quindi forse la linea retta, ed il piano prevedibile, e la vita automatica, è ciò che più in realtà si avvicina alla dimenticanza. Quando arriverai alla fine, potrai forse persino evitare la domanda se tu sia stato davvero felice. E te ne sparirari nella terra come un sasso disintegrato in sabbia dal vento del deserto.
Ma che cazzo ne so, so solo che ho fatto quel ritratto di me a quarant'anni sulla lista della spesa di qualche giorno fa. Maledetti tentativi di fissare gli attimi.
domenica 26 luglio 2009
E' una sorta di neoumanesimo ciò che voglio?
Suonare musica "pop", in senso molto lato: tra le molteplici attività possibili, per un giovane medio dell'occidente opulento, una di quelle che più coltiva la propria vanità. Non da meno è tenere un blog, un diario pubblico. Ci vuole una dose di narcisismo non trascurabile per farlo con un certo rigore ed una discreta regolarità. Sono atti che richiedono il plauso di un pubblico per sussistere. Da lì traiamo la nostra gratificazione, la nostra gioia, il nutrimento per alimentare il nostro ego. Ricercare la bellezza in questo bisogno di essere stimati richiede molto coraggio in più: la fatica della ricerca, la difficoltà ad accettare il compromesso ed allo stesso tempo sempre la necessità di non chiudersi nella propria nicchia, di arrivare a più gente possibile. Inutile dire che nel nostro sistema tutto questo non è mai potuto sfuggire alle logiche di un mercato, di una domanda e di un'offerta. Come cerchiamo il plauso, abbiamo bisogno di applaudire, qualunque sia il nostro livello di consapevolezza e profondità nell'agnizione della bellezza. Ognuno riconosca secondo la propria "etica" le gradazioni diverse di "giusto" e "sbagliato" in fatto di cultura (o di "bello" e "brutto", secondo la propria coscienza estetica, e ammesso che non vogliamo escludere o meno un certo assolutismo o relativismo in questi campi), tra ciò che è "mainstream" e ciò che è "indipendente" (altri concetti piuttosto vaghi su cui si potrebbe scrivere molto). Riflettiamo abbastanza però sul perché di quello che stiamo facendo?
Un atto molto coraggioso, ed allo stesso tempo sofferente e liberatorio, è stato quello di rendermi conto molto presto che avrei dovuto rinunciare fin da principio a tutto il bagaglio di sogni adolescenziali e lustrini indie rock che a livello più o meno inconscio mi animavano. Azzerare le aspettative, smettere di pensare il proprio presente in funzione di chissà quale futuro. Non che ciò non sia un obiettivo allettante, desiderabile e gratificante da raggiungere; sarei un'ipocrita a sostenerlo: nessuno si espone per rimanere nell'anonimato, per quanto fedele ad una propria etica culturale. E' un controsenso (che poi le possibilità di vivere di "arte", benché dotati di buon talento, siano praticamente zero è un altro discorso).
Ma prendere coscienza dei miei più profondi bisogni di creatura umana ha portato a stravolgere in parte la concezione di ciò che produco, di ciò che offro e di come lo offro. E' il bisogno di umanità, di rapporti umani profondi, di una propria compagnia e nicchia di resistenza culturale ed esistenziale, della conoscenza critica di sé e degli altri, della costruzione di un'etica sui pilastri dei propri assoluti, che mi appartenga davvero il più possibile, proprio quando si sa che è solo vuoto e buio quello che ci circonda. E' il bisogno di respirare, di camminare con le proprie gambe a testa alta per quanto possibile. E' il bisogno così intimo di amare e di essere amati. Amore, quest'entità ontologicamente inconsistente, se non creata ad hoc come irraggiungibile ideale da cui dipendere per alimentare il cieco ciclo dello spreco pianificato. Ma al di là di ogni sovrastruttura, come si fa a non vedere dietro questo concetto "una misteriosa corrispondenza con non si sa qual bisogno costitutivo della natura umana"?
"Comunque sia l'amore esiste, in quanto se ne possono osservare gli effetti" (Houellebecq, in "Estensione del dominio della lotta"). Ma ci guarderemo bene dal formulare anche la più sobria delle ipotesi sulla natura di suddetto bisogno.
Comunque sia, è un completo suicidio dal punto di vista del mercato, e non parlo tanto di musica o di qualsiasi altra pretenziosa attività "artistica", parlo proprio del valore umano tarato secondo il metro dell'attuale Paradigma. Si rischia in pratica di non esistere, o di essere condannati ad una solitudine dolorosa. Solo chi ricerca il Bello mettendo così profondamente in gioco se stesso sa quanta sofferenza in più deve sopportare per raccogliere granelli di vera gioia. Questo anche perché oltre la creazione del proprio nucleo, del proprio nido di resistenza umana alla volgarità massimalista del mercato, c'è sempre la necessità di raggiungere più individui possibili del consorzio umano, ma stavolta per scambiare anche solo un briciolo di profondità in più oltre al solito rapporto star/fan. Qualcosa insomma che assomigli molto di più ad un rapporto di scambio orizzontale, più umano, non imposto dall'alto, non da sopra un palco, ma dallo stesso livello di creature senzienti. Questo non esclude il mercato, d'accordo. Ma forse vorrebbe almeno crearne un altro, più Giusto ed Utile, che parta dal basso, dal raggio corto. E' un atto d'utopia, è un atto che richiede una grande stima di sé per meritarla dagli altri ed un grande sforzo di consocenza del sé, che è pronto alla dialettica, che proviene da una creatura che sa di essere destinata probabilmente a perdere, se non altro per estinzione in un milieu che richiede tutt'altro per la lotta alla sopravvivenza; una creatura che pur adattandosi non può esistere altrimenti per affermarsi, consapevole della sofferenza che richiede la ricerca di una felicità dalle radici più salde. Una contraddizione esistenziale sembrerebbe, perché pure se non si vede che buio e vuoto, si vive nel bisogno di esprimersi, di comunicare, di costruire, di amare e di essere amati.
martedì 21 luglio 2009
Esperienze orfiche
La Guerra delle Formiche continua nella veste essenziale e semplicissima di un nuovo sito. Ancora una volta una specie di diario, ancora una volta qualcosa di inscindibile dallo strettamente personale. Un gioco di specchi tra ars, vita ed ego, senza che domini mai nessuna di queste componenti. Ancora una volta una sede che non può restare stabile ma che trova il suo significato nell'evoluzione e nella ricerca continua. Così andrà. Per riaprire le danze un divertissement acustico, una delle canzoni più coverizzate della storia: Song to the siren di Tim Buckley, da Starsailor (1972).
Non poteva mancare un'umile ed allo stesso tempo proterva versione da la Guerra delle Formiche, il cui spunto nasce ancora una volta da quel sottile gioco di specchi, sintesi d'esperienza orfica ancora possibile, indossolubile ed eterno intreccio dei soliti Eros e Thanatos, pur nell'era della fine di ogni Mito. Non sappiamo chi tra i due soccomba per primo al canto dell'altro.
Ve la offro qui
Esistono alcune varianti nel testo attraverso i decenni, che forse risalgono allo stesso Tim Buckley (che ha rimaneggiato i versi del poeta californiano Larry Beckett). Non abbiamo per niente premure filologiche qui, abbiamo scelto la variante che più si addiceva alle "circostanze" (ancora una volta, ars-vita-ego). Questa versione è stata realizzata su una chitarra acustica sprovvista di mi cantino, le cui corde sono tutti do a diverse ottave. L'accordatura segue il La Verdiano a 432 Hz, che si dice risulti più armonioso. Così, per dimostrare che si può suonare una canzone intera anche con un solo dito. Punk è innanzitutto democraticità.
Long afloat on shipless oceans
I did all my best to smile
'til your singing eyes and fingers
drew me loving to your isle
and you sang "Sail to me, sail to me
let me enfold you
here I am, waiting to hold you"
Did I dream you dreamed about me?
Where you hare when I was fox?
Now my foolish boat is leaning
broken lovelorn on your rocks
for you sing "touch me not, touch me not
come back tomorrow
oh my heart shies from the sorrow"
I am as puzzled as a newborn child
I am troubled at the tide
should I stand amid your breakers
or should I lie with death my bride?
Hear me sing "swim to me, swim to me
let me enfold you
here I am, waiting to hold you"
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